Alcuni dei mali del fumetto in Italia secondo Marco Pellitteri

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view post Posted on 26/1/2012, 08:43
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Questo è un cahier de doléances. Un elenco di undici «cose» che, secondo me, a vario titolo fanno male al fumetto in Italia. Non a tutto il fumetto, naturalmente, ma a quei tipi di fumetti che da almeno una di queste cose sono toccati più o meno pesantemente; e non solo i fumetti ma «il fumetto» come sistema e settore culturale.
Sono solo undici… so che ce ne sarebbero molte altre. È inoltre possibile che non tutti i punti di questo elenco trovino d’accordo chi li leggerà: essi rappresentano la mia personale prospettiva. Ho cercato di argomentarli in modo ragionevole, sebbene nella sintesi.
La sequenza di questi punti si è formata a mano a mano che mi venivano in mente gli elementi che ritengo dolenti. Dunque essa è «casuale», perché a posteriori non ritengo che il punto 1 sia più problematico del punto 8 o che il punto 3 lo sia meno del punto 2. Al lettore il compito di formulare la sua graduatoria fra questi ed, eventualmente, altri punti critici. A differenza delle canoniche liste di lamentele, tuttavia, ho cercato qui di fornire almeno in alcuni casi, sempre in termini sintetici, qualche elemento costruttivo.

1. Gli uffici stampa delle case editrici di fumetti

La maggior parte delle case editrici di fumetti in Italia non possiedono un ufficio stampa capace di svolgere il proprio lavoro in modo «normale», cioè quotidianamente, usando gli strumenti di cui gli addetti stampa delle aziende solitamente si avvalgono: il telefono, il cellulare, il fax, l’e-mail, la rubrica telefonica, i biglietti da visita, gli elenchi telefonici cartacei e on-line, il direct mailing digitale, il rilascio settimanale di comunicati stampa fra loro coordinati. Si tratta di una situazione molto critica per due ragioni: la maggior parte delle case editrici di fumetti italiane non hanno il budget, o sostengono/ritengono di non averlo, per assumere uno o due addetti stampa capaci di svolgere questo mestiere a tempo pieno, in modo da generare dibattito sui titoli della casa editrice e vendita di copie; si rivolgono pertanto ad addetti stampa inesperti, poco noti ai giornalisti, con una rubrica di contatti nei media scarsamente nutrita, con le idee non proprio chiare sulle dinamiche del mestiere e che il più delle volte si dedicano all’attività promozionale in modo non continuativo durante la settimana; ma d’altro canto i compensi che gli editori si sentono di voler/poter proporre a tali addetti stampa – quando ciò avviene – sono sovente risibili, il che livella verso il basso, automaticamente, sia la qualità del servizio, sia l’età e l’esperienza di chi sarà disposto ad accettare determinate condizioni retributive, sia la motivazione nello svolgere tali mansioni promozionali.
Per risolvere questo problema, che danneggia innanzitutto gli introiti degli editori, dal momento che un editore senza un ufficio stampa è un soggetto invisibile al di fuori del ristretto circolo dei lettori abituali di fumetti, occorrerebbe una mentalità realmente imprenditoriale, la stessa che manca affinché, per esempio, quegli stessi editori si dotino di un esperto di marketing aziendale o di traduttori e supervisori attenti (si vedano i punti seguenti).
Un ultimo elemento d’interesse è l’uso mistificante che viene attualmente fatto della comunicazione via internet. Aggiornare il sito internet dell’editore va bene, ma cercare di acquisire contatti sui social network sta assumendo troppo peso nella giornata lavorativa degli addetti agli uffici stampa: le pagine di una casa editrice su di un social network sono frequentate soprattutto da persone che o ruotano intorno alla casa editrice o che comunque già la conoscono, e non sono granché utili ad acquisire nuovi acquirenti. Sarebbe ora che i giovani addetti stampa si svegliassero e capissero che per vendere i libri ci vuol altro: il web è uno strumento formidabile per trovare nuovi lettori/acquirenti, ma bisogna saperlo usare.

2. Affidarsi a traduttori inesperti, o disattenti, o poco motivati, o…

Il tradurre prevede la conoscenza della lingua da cui si traduce, certamente; ma ancor di più prevede la conoscenza approfondita della lingua verso cui si traduce e, inoltre, la capacità previa di saper scrivere bene nell’idioma di destinazione.
Malgrado alcune indubbie eccellenze (basti pensare al lavoro di Andrea Plazzi sulle opere di Will Eisner), non pochi traduttori e traduttrici che traducono fumetti da altre lingue in italiano a me paiono a volte scarsamente capaci di esercitare con costanza la dovuta attenzione su ciò che cercano di rendere in italiano a livello sia semantico, sia lessicale, sia sintattico.
Per un lettore adulto di cultura medio-alta (una discreta parte dei lettori di fumetti, oggi) è fastidioso il leggere dialoghi e didascalie con la punteggiatura sbagliata, con la consecutio temporum piena di errori, con un’errata interpretazione dei riferimenti culturali originari, con frasi idiomatiche riportate in modo maldestro e perfino con singole parole dall’ortografia sbilenca.
A completare il quadro v’è la frequente inconsapevolezza di vari traduttori circa le distinzioni linguistiche fra l’italiano cosiddetto standard e le espressioni regionali e dialettali: parole come «rosicare» o interiezioni come «ohi», per esempio, sono usate pressoché solo nel Lazio e ad adoperarle nelle loro traduzioni sono traduttori originali del Lazio; lo stesso discorso vale per traduttori di altre regioni, i quali non credo inseriscano il loro dialetto come omaggio campanilistico ma a causa della loro mancata percezione circa la differenza fra ciò che è italiano e ciò che non lo è. Si pensi poi a quei casi in cui il traduttore non conosce la distinzione fra «tu» e «te», fra apostrofi e accenti… e tanti altri errori da matita rossa o blu.
Il problema di questo stato di cose nel fumetto italiano non riguarda solo le case editrici piccole e con scarsi budget (le quali si affidano spesso a traduttori promettenti ma ancora inesperti, costretti a lavorare in tempi molto ristretti ecc.) ma anche le case editrici maggiori (sia quelle specializzate in fumetti, sia i grandi editori di varia). Se in questo settore dell’imprenditoria, come in altri, ci si affidasse regolarmente a provini per valutare la professionalità e l’abilità dei candidati (prove di traduzione e di supervisione), molti problemi verrebbero risolti a monte; a meno che i valutatori stessi non siano scarsamente capaci di valutare i valutandi.
Il problema di fondo, duole dirlo, è che non sempre gli editori hanno la sensibilità e la cultura necessaria per capire che una traduzione eseguita male genera fastidio nei lettori e fa sì che il fumetto mal tradotto non venga acquistato né dai lettori generici, né dagli appassionati, né dalle biblioteche e dalle scuole (si veda il punto 4). La traduzione non è una mera fase tecnica: richiede cultura, preparazione, attenzione, tempo e un adeguato compenso. La corsa al ribasso anche in questo settore dell’editoria (non solo a fumetti) sta creando danni al fumetto tutto: l’effetto, dall’esterno, è che a volte il fumetto sia una forma espressiva non solo per illetterati, ma realizzata da illetterati. Il che, se fosse vero, mostrerebbe che in questo caso la famosa profezia autoavverantesi si è concretizzata dall’interno, colmo dei colmi.

3. Affidarsi a supervisori poco esperti e poco attenti

Il supervisore o, con terminologia inglese, l’editor, è una figura fondamentale del lavoro di produzione editoriale.
Dai risultati riscontrabili dall’esterno, cioè da parte dei lettori, è evidente che molte case editrici di fumetti non si avvalgono di supervisori in grado di svolgere in modo impeccabile il loro mestiere. Laddove un traduttore inesperto o frettoloso commette un qualche tipo di errore (vedi il punto dedicato alla traduzione); laddove uno sceneggiatore alle prime armi o disattento compie o riporta errori di punteggiatura, sintassi o grammatica o anacronismi nel lessico o nelle ambientazioni; laddove un calligrafo sbaglia nel riportare l’ortografia e la sillabazione delle parole; laddove un disegnatore lasciato troppo libero commette errori di visualizzazione o addirittura «copia» (com’è accaduto in passato); in tutti questi casi, un bravo supervisore dev’essere severo e dirigere il lavoro con mano ferma, in modo che il lavoro degli altri professionisti sia sempre tenuto sotto sorveglianza e, in tal modo, ne venga esaltato perché ripulito dagli errori.
In nome di una travisata «libertà» artistica, pare invece che l’anarchia produttiva di non pochi fumettisti, unita alla loro moderata cultura e capacità di documentazione, abbia favorito errori dal punto di vista della coerenza scenico-sceneggiativa, del linguaggio e quindi della gradevolezza e fruibilità, specialmente nell’ambito delle serie, miniserie e romanzi a fumetti degli editori minori.
Case editrici come la Bonelli, che si affidano a supervisori di collana e ad autori mediamente assai colti e le cui pubblicazioni passano attraverso più fasi di revisione, sono fra le poche a essere pressoché esenti da questi problemi.
Evidentemente occorrerebbe agli altri editori maggiore attenzione a questo tipo di metodo, per conseguire risultati migliori.
Si tenga inoltre presente, fenomeno deleterio, che le case editrici, specie quelle grandi ma non solo, tendono ad affidare la traduzione all’editor stesso che cura il libro/albo. Spesso il medesimo editor/traduttore esegue anche le varie correzioni di bozze. Bisogna essere davvero molto bravi e appassionati per ridurre al minimo la quantità di refusi ed errori di concetto, ed effettuare un numero molto alto di riletture. E anche così, alcuni errori rimangono, visto che una singola figura, anche se di particolare bravura, non può tecnicamente riuscire a svolgere il lavoro di più persone.
Questo e il precedente punto sono le cause principali del problema esposto in quello seguente.

6. Gli editori che da anni e ancor oggi pubblicano i manga in edizione ribaltata

Fin dal 1995 la Star Comics, rischiando con Dragon Ball, rese evidente non solo che i lettori italiani di manga erano propensi ad abituarsi subito alla pubblicazione di manga non ribaltati (quindi col senso di lettura alla giapponese), ma anche che gradirono molto questa soluzione. È una questione molto interessante, che riguarda un segno di distinzione nel gusto, un avvicinamento culturale al modo di lettura dei giapponesi, una corrispondenza maggiore all’esperienza di lettura dei manga da parte dei lettori nipponici. Che ancora qualche anno fa alcuni grossi editori pubblicassero opere come Jenny la tennista o Lady Oscar in edizione ribaltata, trasformando sistematicamente tennisti e spadaccini destrimani in mancini, aveva a mio avviso del grottesco. Ma altri editori hanno rilevato i diritti di almeno alcuni di questi classici manga di successo, proponendone riedizioni non ribaltate.
La questione del ribaltamento dei manga non riguarda primariamente una faccenda di leggibilità e di direzionalità percettiva. Come ho scritto sopra, essa riguarda il gusto dei fan dei manga, la loro identità di lettori molto spesso nettamente distinta rispetto a quella dei seguaci di altri fumetti (occidentali), il desiderio, che trova oggi piena soddisfazione, di poter trovare nella lettura da destra a sinistra la sequenzialità e la direzionalità originariamente predisposte dagli autori nipponici. Il non voler soddisfare questo semplice desiderio di quei fan che di fatto mantengono in vita il mercato dei manga in Italia, per inseguire ingenuamente e ostinatamente la chimera di un fantomatico gruppo di lettori «casuali» (anziani? ignoranti? pigri? semi analfabeti?) presuntamente non abituati o non abituabili alla lettura non ribaltata, mi è incomprensibile.

9. La distribuzione per com’è oggi, fra «edicole», librerie «di varia» e «fumetterie»

Innanzitutto, mi pare faccia male al fumetto il fatto che occorra stampare un numero esorbitante di copie di un albo o rivista per fare in modo che essi siano distribuiti nel circuito nazionale delle cosiddette «edicole» (termine che a me pare poco corretto, poiché l’edicola sarebbe di fatto un tabernacolo…); in teoria sarebbe giusto concedere la possibilità di apparire nelle edicole anche a editori in grado di stampare in tirature inferiori alle 10.000 copie, ma credo che questa soglia sia un vero e proprio filtro «razzista» d’ingresso, poiché le edicole sono perennemente sovraffollate.
Le «edicole» del fumetto sono divenute comunque, dagli anni Novanta, le «fumetterie», altro termine ambiguo in vari modi: si tratta di negozi la cui gestione, per lo più nata spontaneamente da appassionati, si è rivelata lontana dagli obiettivi che una libreria dovrebbe prefissarsi, cioè quelli miranti all’allargamento costante della propria clientela.
Inoltre, le fumetterie dovrebbero avere, a mio parere, la «missione» di farsi quale sorta di biblioteche per esercitare un apostolato del fumetto in grado di far sì che la clientela possa ampliare le proprie prospettive sui fumetti. Per esempio, a ciascun lettore di manga potrebbe essere proposta (per un massimo, per esempio, di tre volte per ciascun cliente) una lettura di prova di un fumetto italiano o americano o europeo o sudamericano: ti presto per una settimana questo albo o volume mediante cauzione, e dopo averlo letto me lo restituisci e io ti ridò i soldi; se ti è piaciuto a tal punto da volerlo tenere, mi tengo i soldi e tu ti tieni l’albo. Invece ognuno guarda al suo e la disposizione dei fumetti sugli scaffali rispecchia questa concezione a compartimenti stagni del fumetto da parte dei gestori, che in quanto appassionati essi stessi hanno, da quel che ho visto, una visione quasi sempre limitata della loro stessa merce: i manga sono messi con i manga, i supereroi con i supereroi, tutto il resto non si sa dove. È vero che sono i lettori stessi che spesso preferiscono questa compartimentazione, ma ciò più che altro perché sono sempre stati abituati così. Spezzando questo circolo vizioso con iniziative di vario genere e con una differente strategia espositiva sarebbe possibile ampliare le prospettive degli acquirenti e implementare l’arco generazionale della clientela, proprio in una fase in cui le edicole sono sempre meno frequentate da giovani lettori di fumetti, se non per i manga.
Infine, a far male al fumetto in Italia sono secondo me le librerie «di varia». Non ci si faccia trarre in inganno dal fatto che le librerie hanno adesso, spesso, una sezione dedicata ai fumetti. Che tipi di fumetti sono presentati in questo scaffale? Solo alcuni, quelli pubblicati dagli editori maggiori, tranne rare eccezioni. Il problema maggiore della gestione dello scaffale dei fumetti in libreria è tipologico: ci sono soprattutto fumetti in formato cartotecnico «libro» (cartonati, brossurati, comunque in forma di volume), il che sposta presso i frequentatori abituali delle librerie la concezione del fumetto da un’idea di lettura d’intrattenimento a un’idea di lettura in qualche modo più impegnativa, il che sarà anche vero nel caso dei fumetti più densi di contenuti e di maggior livello letterario, ma questo processo genera anche la falsa idea che i cosiddetti graphic novel siano altro dai fumetti seriali venduti nelle edicole. Ma c’è anche un altro problema ed è di tipo strettamente espositivo: diversamente da quanto accade in fumetteria, luogo frequentato per lo più da chi già pratica questo tipo di letture, i fumetti, per essere efficaci nei confronti dell’acquisto in libreria, vanno esposti frontalmente, perché sono una forma visiva: devono invogliare alla prensione e alla visione da parte dell’avventore, quindi andrebbero disposti su grate o su espositori frontali, a dispetto di qualsiasi idea intellettualistica sul fumetto come forma di lettura impegnata.

Fonte: LoSpazioBianco.it
 
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